Ivana Adaime Makac è un’artista che vive a Parigi e che noi abbiamo incrociato nel 2022 ad una mostra a Milano. Lì abbiamo conosciuto la sua interessante ed originale ricerca e abbiamo continuato a seguirla. Non ne anticipiamo granché perché Ivana è stata così gentile da rispondere ad alcune nostre domande, e quindi lasciamo a lei descrivere il suo lavoro.
Le immagini di questo articolo ci sono tutte state fornite dall’artista.
Iniziamo da un breve curriculum (per approfondire potete guardare qui)
Ivana Adaime Makac è un’artista visiva, nata nel 1978 in Argentina, vive a Parigi dal 2008.
Dopo aver studiato Storia dell’Arte presso l’Universidad de Buenos Aires, si è diplomata all’École supérieure d’art des Pyrénées e ha conseguito un Master in ricerca artistica presso l’Université Paris-Panthéon Sorbonne.
Il suo lavoro è stato esposto in mostre personali: Les ateliers vortex, Centre d’art contemporain de Pontmain, Domaine de Chamarande, Le ravitaillement (Francia), La Chambre Blanche (Canada), Centre d’art contemporain du Luxembourg belge (Belgio) tra gli altri.
È stata anche presentata in mostre collettive: Salon de Montrouge, Le bel ordinaire, Villa Belleville (Francia), Galleria Ipercubo (Italia), Wood Street Galleries (USA) insieme ad altri.
Dal 2007 ha partecipato a diversi programmi di residenza artistica internazionale. Il suo lavoro è rappresentato dalla galleria Ipercubo, Milano.
La tua ricerca, come dimostrano anche alcune tue esposizioni, si inerisce nel filone di attenzione al postumano, che si configura non solo in relazione al rapporto umano – tecnologie, ma anche come rapporto non gerarchico tra umano e animali. Nel tuo caso oggetto di attenzione sono piccoli animali, insetti, piante. Come hai iniziato e perché a dedicarti a questo tipo di arte?
Non utilizzo mai il concetto di post-umano quando parlo/penso al mio lavoro, ma posso capire che lo facciano gli altri e accetto quel punto di vista. Non mi sento vicino alla parte tecnologica di questo concetto dato che il mio lavoro è molto low-tech!
La mia pratica artistica, fin dall’inizio, è stata mobilitata e influenzata da altre forme di vita non umane e dalla questione dell’addomesticamento e dalle complesse relazioni che ne derivano. Questo interesse per la vita non umana mi ha gradualmente portato a esplorare questioni relative alla forma deperibile, impermanente, incompiuta, alle temporalità cicliche e ad altri tipi di temporalità…
Già nei miei primi progetti, da studente, ho inserito degli insetti, erano insetti morti all’epoca raccolti in Patagonia. Nel 2001 ho realizzato un progetto fotografico intitolato «siamo circondati», presentato come uno slideshow. All’ingresso della sala di proiezione offrivo ai visitatori insetticidi aerosol scaduti dal 1970 e anche una sorta di goffo manifesto o dichiarazione con una critica all’antropocentrismo e un elogio agli insetti con una sorta di scenario in cui gli insetti governeranno il mondo… mi fa sorridere oggi ma credo ancora nell’essenza di queste idee.
Poi ho iniziato a realizzare video di insetti vivi e poco dopo la loro presenza in vivo è stata inclusa nelle mie installazioni e sculture. Quindi c’è stata una sorta di progressione verso i vivi.
Gli insetti sono affascinanti e misteriosi per me per diversi motivi: differenza di scala, differenza di temporalità e soprattutto vivono in un mondo o Umwelt completamente diverso che non è facile da decodificare per i nostri occhi umani, un mondo a cui non avremo mai accesso con i nostri occhi. strumenti, nonostante la ricerca scientifica e tecnologica…
Gourdes sous contraintes (harvest), Association Clinamen, La Courneuve 2023
Uno dei tuoi campi di interesse sono i processi di addomesticazione e dis-domesticazione degli esseri viventi. Ad esempio in Rééducation (dal 2009) cerchi, primavera dopo primavera, di reinsegnare alle farfalle che nascono dai bachi da seta a volare, dopo migliaia di anni in cui l’addomesticamento le ha private di questa capacità. Ci racconti questa, o altre pratiche? I processi di addomesticazione secolari che riguardano umani e non umani possono essere superati?
È interessante come ti concentri sullo stadio delle farfalle e sulla loro perduta capacità di volare! Gli esseri umani hanno sviluppato più simpatia ed empatia per le farfalle che per le larve… Nel mio progetto Rééducation sono infatti più legata alla fase larvale del Bombyx mori, la fase più lunga del loro ciclo di vita, il che significa che condividiamo più esperienze insieme durante quel periodo. Il lungo processo di addomesticamento, infatti, ha modificato il loro modo di vivere, allontanandoli dal loro habitat originario, determinando cambiamenti comportamentali, morfologici e dipendenza dall’uomo per la loro sopravvivenza. Oggi, gli specialisti dell’addomesticamento, considerano la Bombyx mori incapace di ritornare ad essere fauna selvatica, forma nella quale non esiste più. Annullare un processo di addomesticamento durato 5.000 anni e su scala pari a quella di una vita umana, sembra una sfida non priva di assurdità e uno dei paradossi che questo progetto comporta. Questo progetto riguarda più la realizzazione di tentativi che il raggiungimento di questo obiettivo utopico. Un giorno un ricercatore genetico dell’Istituto Marie Curie venne nel mio studio, per vedere i miei bachi da seta. Dopo aver detto « qui c’è un buon mix genetico! » mi disse « …il tuo progetto non è del tutto impossibile, ma devi fare una selezione molto rigorosa e radicale… ». Da circa undici anni eseguo quella che io chiamo una «selezione inclusiva», raccogliendo poche uova da ciascuna covata, nel tentativo di riunire la più ampia varietà possibile di esperienze vissute (con la speranza che ci sia una trasmissione alle generazioni future). ). Nel 2012, nell’ambito di una mostra, ho fatto una scelta di selezione che mi ha messo a disagio: avevo selezionato i bozzoli che i bachi da seta erano riusciti a tessere sul gelso, poi li ho separati e installati in un vivaio, in modo che si riproducessero tra loro una volta diventate farfalle. Questo mi ha messo di fronte a qualcosa che mi ha fatto pensare all’eugenetica e mi ha fatto riconsiderare le mie scelte. Questa esperienza di allevamento artistico, come ogni atto di allevamento e persino di coltivazione di piante, comporta in determinate fasi un’articolazione tra cura e potere. Anche se abbiamo buone intenzioni, e anche se forniamo assistenza e sviluppiamo una relazione emotiva, ci sono alcuni momenti di asimmetria nella relazione, perché prendiamo decisioni per loro riguardo al loro destino.
VT: Un po’ come le esperienze con le intelligenze artificiali, per cui per quanto sorprendente o affascinante possa essere il loro operare comunque ci dev’essere un umano che le aziona, così nelle pratiche di dis-domesticazione comunque ci devi essere tu che accudisci gli animali. E’ un “paradosso” a cui hai pensato?
Sì, i paradossi sono affascinanti e innescano davvero tutta la mia pratica! Naturalmente ne sono cosciente ed è per me un aspetto importante ed entusiasmante. Il processo di “disdomesticamento” nel mio progetto Rééducation è un processo assistito: per «guidarli» verso una sorta di autonomia devo sostenerli, prendermi cura di loro, svolgere diversi compiti quotidiani. Questi compiti sono simili a quelli svolti dagli allevatori tradizionali ma le ragioni che animano la mia esperienza di allevamento sono diverse. In modo globale cerco di offrire ai bachi da seta condizioni di vita diverse da quelle di un contesto di produzione della seta. Mi chiedo se dare loro l’opportunità di sperimentare, o incoraggiarli a vivere nuove esperienze che nascono dalla ripetizione, sarebbe un terreno fertile per l’emergere di comportamenti singolari. Se offrissimo ai bachi da seta un contesto di vita più fluttuante, meno strutturato o addirittura irregolare senza aspettativa di produttività della seta, cosa diventerebbero?
Quindi questo progetto riguarda esperienze a bassa tecnologia per stimolare la comparsa di comportamenti autonomi che ho impostato nelle diverse fasi del loro sviluppo. Alcune di queste esperienze sono legate al cibo (gelso), combinando alimentazione ed esercizio fisico. In questo senso a volte li realizzo delle sculture con foglie di gelso che li spingono a compiere sforzi per nutrirsi. E a volte li porto a mangiare direttamente sui gelsi nei parchi di Parigi, questi picnic sono per loro un’esperienza molto completa ed impegnativa, con un’ampia gamma di stimolazioni. Non solo mangiano esercitando la loro destrezza sull’albero, ma possono anche avere stimoli all’aria aperta e sfidare gli elementi con cui hanno perso il contatto: il sole e soprattutto il vento che fa muovere i rami sfidando la loro stabilità. Hanno a che fare anche con predatori diurni come formiche, vespe o uccelli, di fronte ai quali a volte assumo i panni di uno spaventapasseri e a volte quelli di un cane da pastore…
Questa primavera, durante una residenza, ho continuato queste esperienze in un contesto rurale nella Sierra de Aracena, in Andalusia. Queste esperienze andavano oltre l’idea del «picnic» perché una volta che i vermi diventavano abbastanza robusti per affrontare l’aria aperta, li portavo a mangiare sugli alberi ogni giorno ed era più come una breve transumanza. Ad ogni modo, quando produco questo tipo di esperienze mi chiedo come vivevano 5000 anni fa, prima della loro domesticazione, quando i gelsi erano la loro pianta ospite.
L’origine dei bachi da seta (bombyx mori) resta ancora poco chiara ed è oggetto di ipotesi: per alcuni sarebbe la theophila mandarina il suo punto di partenza, per altri i bachi da seta discenderebbero da un insetto già estinto.
Jardin des revenants, group show Ouvrages fantasmer le monde, Rue Beaujon, Paris, 2022
VT: Collegandoci alla precedente domanda: i viventi di cui t’interessi diventano parte di un’opera d’arte con le sue regole compositive. Cioè le foto le installazioni che ne trai comunque rispondono a una tua precisa scelta estetica a cui i soggetti che partecipano devono adattarsi. Le stesse zucche con cui hai lavorato recentemente si modificano in base a reticoli che tu stendi. L’arte ritorna comunque ad uno sguardo umano?
Non direi che ho delle “regole compositive”, si tratta più di gestire parametri diversi, in cui il nucleo sono gli esseri viventi con cui lavoro. Lavorare con gli esseri viventi e includere la loro presenza in un’opera è una grande responsabilità (e questo forse è uno dei motivi per cui a volte ho rifiutato proposte espositive che non offrivano buone condizioni).
È difficile rispondere a questa domanda in termini generali, ogni progetto e ogni essere vivente coinvolto ha le sue particolarità.
Nel caso del progetto Il banchetto (2008-2017), un’installazione in evoluzione da mantenere quotidianamente, ho lavorato con grilli o locuste allevati, che in entrambi i casi sono insetti allevati come cibo vivo per nutrire animali domestici esotici. Estraendoli da questo contesto e offrendo loro un «banchetto», fuggono al loro «essere in trappola», pur rimanendo in una certa forma di prigionia. Gli ingredienti di queste sculture venivano scelti in base alla loro dieta (onnivora nel caso dei grilli ed erbivora in quella delle locuste). Allo stesso tempo, questa installazione si adatta al comportamento e ai bisogni di questi insetti. Nel caso dei grilli, ad esempio, è fondamentale prevedere in ogni scultura dei luoghi in cui nascondersi e riposarsi al buio. Per le locuste è importante realizzare delle sculture con elementi a cui potersi appendere durante la fase della muta. In breve, il loro modo di vivere, i bisogni vitali e la dieta sono parametri per comporre questi ambienti temporanei.
Nel caso dei bachi da seta, la loro mancanza di autonomia mi porta a costruire un ambiente di vita, più o meno controllato, in cui possano trovare più libertà che in un contesto produttivista.
Con il progetto zucca, chiamato Gourds under vincolis, cerco di osservare una diversità di comportamenti in risposta ai vincoli imposti (corde, detriti di imballaggio). Alcune varietà di zucche respingeranno o addirittura strapperanno i vincoli con la loro forza di crescita, mentre altre varietà si adatteranno e si scolpiranno attraverso i vincoli. Per me questo significa che prendono decisioni in un contesto che stabilisco io. Da un lato questo progetto riguarda la resilienza e dall’altro è a suo modo brutale o primario per permettere la cristallizzazione visiva dell’azione di addomesticamento.
Dietro tutte le verdure che mangiamo ogni giorno ci sono processi di vincoli (selezioni, metodi e condizioni di coltivazione) che non vediamo (o non vogliamo vedere) e che non sono chiaramente «scritti» nella loro carne vegetale, come può essere il caso delle mie zucche…
Ma vorrei parlare anche di un altro tipo di progetto chiamato Jardin de revenants (in corso dal 2017) che non hai menzionato nelle tue domande, in cui esiste una diversa modalità di convivenza con gli insetti. Il punto di partenza di questo progetto sono stati resti, residui e avanzi (organici e non) raccolti in quasi dieci anni da altri progetti. L’idea era quella di creare una nuova opera attraverso gesti di ricomposizione, «compostaggio», cercando di magnificare il decadimento di questi residui. Concettualmente era un modo per far coesistere i miei diversi progetti affrontando l’idea di reliquiario e mummificazione. Nella primavera del 2019, ho scoperto progressivamente in questo Jardin des revenants la presenza dello stégobium panicoeum (un minuscolo coleottero) e anche la presenza di ragni come la Steatoda grossa e successivamente una varietà di micro-imenotteri parassitoidi.
Questi artropodi hanno adottato un ambiente scultoreo già esistente che percepiscono come uno spazio abitabile e nutriente, dove hanno sviluppato una catena alimentare, relazioni trofiche tra prede-predatori. Insomma un modo di funzionare autonomo, un ecosistema, che si sta trasformando-scolpendo e riducendo in «polvere» il mio lavoro.
La presenza di questi artropodi articola decrepitezza e rivitalizzazione. Rivitalizzazione nel senso di fare i conti con i residui di opere precedenti, rimettendoli in «circolazione» per generare una nuova opera. E anche rivitalizzazione, in senso proprio, una ripresa attraverso le azioni cicliche di questi insetti che percepiscono il mio lavoro come uno spazio vitale, producendone gradualmente la scomparsa.
VT: I bachi da seta che si trasformano in farfalle attirano la tua attenzione sull’incompletezza e sui cambiamenti del vivente. Questo ci riporta alla serie “Zombies” in cui le piante sono mantenute in uno stato non ancora di morte ma nemmeno di vita. Puoi dirci di più a riguardo?
Il progetto Zombie fa parte di una ricerca sulle temporalità e sugli stati derivati dal vivente. Attraverso una tecnica di conservazione che sviluppo dal 2015, cerco di esplorare l’idea di una sospensione del tempo, di una via di mezzo, tra i vivi e i morti. Queste foglie e verdure stabilizzate hanno perso tutto il loro colore verde ma mantengono una certa flessibilità che ricorda la vita e non marciscono né si spezzano. Nonostante questa forma di stabilità, il loro aspetto è decrepito e decadente. Questo processo crea una dimensione inquietante, dove diventa difficile determinare l’origine di ciò che stai guardando: vegetale, animale, fungo altro? (Il colifiore può sembrare un cervello umano, la lattuga può sembrare un’alga marina, le foglie di cavolo possono sembrare la pelle di una sommelier, ecc.).
Si tratta anche di « vegetalizzare » la figura dello zombie (la figura cinematografica), una forma di alienazione e alterazione.
Nelle prime fasi di questo progetto, ho realizzato dei pezzi con solo verdure stabilizzate sotto forma di ghirlande, ma poi ho iniziato a combinarli con altri elementi e a introdurli in altri progetti. Mi piace quando i miei progetti si parassitano a vicenda, lo vedo come una forma di coevoluzione.
Il giardino dei revenants, è uno dei progetti che è stato «parassitato» dal progetto Zombie.
Ma vorrei anche menzionare uno spettacolo che ho fatto nel 2023, in Normandia, chiamato Primeurs, Zombies, Nagori. Con questo strano titolo ho voluto stabilire una sorta di carta temporale, corrispondente ai diversi stati degli elementi dell’installazione. L’installazione era come un dialogo tra diversi progetti, in cui le zucche e le verdure zombie erano centrali.
Nell’autunno 2022, nove mesi prima dell’apertura della mostra, sono andata in Normandia e sono entrata in contatto con un coltivatore di ortaggi biologici che mi ha permesso di raccogliere nella sua proprietà diverse piante e ortaggi, per creare assemblaggi con «la mia tecnica zombie». La mia raccolta si è basata su piante che non finiscono nel piatto dell’uomo, da una parte piante solitamente chiamate infestanti che possono “interferire” con la sua attività produttiva e dall’altra elementi vegetali che vengono scartati dal contadino come cime di carota o altro fogliame che non viene venduto ai clienti. Poi ho avuto tutto l’inverno per lavorare e trasformare questo raccolto e creare assemblaggi. Questo mi porta a dire quanto siano importanti per me i processi produttivi e le «avventure» dietro l’opera d’arte, anche se non sono visibili nello spazio artistico in cui vengono presentate. E questo mi porta anche a dire quanto siano importanti le stagioni. Ogni stagione è dedicata a un progetto diverso e, come hai sottolineato, la primavera è dedicata al progetto del baco da seta ma anche alla semina della zucca.
Primeurs, zombies, nagori, solo show, Le ravitaillement, Gavray-sur-Sienne, 2023
VT: mutazioni che sono anche di senso, a seconda del vivente che utilizza un elemento. Per cui le piante, che sono viventi in sé possono diventare cibo per gli altri oppure oggetto di vita quotidiana per l’umano. Come nel caso delle verze convertite in libri o sedie.
Sono felice che tu abbia osservato questo aspetto. Tutto ruota attorno alla prospettiva, all’alterazione dei contesti o alla ricerca di nuove configurazioni per lo stesso elemento che possano portare a una percezione variata. È qualcosa con cui provo a giocare.
Vorrei citare ancora il caso di Jardin des revenants, anch’esso una questione di prospettiva. Questo progetto, che inizialmente era stato pensato come una forma di esplorazione del reliquiario e della mummificazione, è diventato, senza alcun intervento da parte mia, un luogo prescelto per lo “stegobium panicoeum” e altri artropodi, che hanno deciso di stabilirsi in questo ambiente scultoreo. Trovando in diverse sculture il necessario per sviluppare la propria vita perforando gli strati di vernice per trovare la materia organica che li interessava. Mangiano persino sculture fatte con escrementi di bachi da seta. I rifiuti di alcuni esseri viventi diventano cibo per altri esseri viventi…
VT: se hai girato il nostro sito avrai visto che uno dei nostri campi d’interesse è il Mercato dell’arte. Come viene accolto questo tuo lavoro, non tanto le foto o video che ne trai, ma l’oggetto stesso che produci, dalle gallerie e dai collezionisti? Quali differenze trovi con metodi espressivi più tradizionali come la pittura?
Sebbene le pratiche artistiche si siano evolute notevolmente a partire dalla seconda metà del XX secolo, con un crescente interesse per gli esseri non umani e i materiali organici, l’aspettativa nei confronti delle opere d’arte rimane più o meno la stessa: che durino, che abbiano una durata relativamente stabile esistenza materiale per far parte di una collezione, di un museo e del mercato dell’arte. Esiste come un istinto di conservazione, o come dice lo scrittore e psicoanalista Gérard Wajcman «sogni di eternità» della nostra società di cui i metodi di conservazione e di restauro sono i sintomi. Parla anche degli aspetti paradossali della nostra società: siamo circondati da oggetti usa e getta, oggetti che scartiamo dopo l’uso e oggetti che vorremmo conservare per sempre. Mi chiedo perché oggi sia ancora così difficile accettare che un’opera d’arte possa cambiare, o essere materialmente instabile, come un corpo vivente?
In questo senso, la mia pratica artistica resiste al mercato dell’arte, questo è certo, ma penso che la mentalità stia cambiando (lentamente) e sono felice di avere pochissimi collezionisti aperti e brillanti.
Alla domanda relativa alle differenze tra pratiche come la mia e pratiche che utilizzano metodi espressivi più tradizionali, risponderei dicendo qualcosa di ovvio, che probabilmente immaginerai: meno visibilità, meno opportunità espositive, meno collezionisti… Ma non c’è amarezza in questo, questo è solo un dato di fatto.
Gourdes sous contraintes (growing phase), Association Clinamen, La Courneuve, 2023