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Ne “I figli della Mezzanotte” Salman Rushdie racconta che, in India alla fine degli anni ’40, per aggirare la regola che sullo schermo cinematografico impediva agli innamorati di toccarsi, per evitare di corrompere la gioventù del paese, s’inventò un geniale artificio: si baciavano gli oggetti. Dunque, un amante baciava una mela e poi la passava alle labbra appassionate del fidanzato e così via con i vari oggetti di scena: dalla frutta alle spade alle tazze da tè. Nacque il bacio indiretto che, scrive sempre Rushdie, rappresentava “una concezione infinitamente più raffinata di tutto ciò che vediamo al cinema oggi e realmente carica di desiderio ed erotismo”. Eppure, purtroppo, il suo successo fu effimero.
Ed è finita anche la stagione in cui ci si era convinti che la “vita indiretta”, la Rete frapposta tra noi e il resto del mondo durante il primo lockdown , pur con alcuni sacrifici, potesse surrogare degnamente alla quotidianità. Nella seconda clausura (in Italia lockdown non si può dire) sono praticamente scomparse le migliaia di conferenze/mostre/video che hanno inondato la prima ed in generale si è passati dallo siamo tutti sulla stessa barca ad una diffusa astiosità.
Ora, a parte che la nostalgia della quotidianità pre covid porta ad assumerla come normalità privata di una visione critica, a noi sembra che possiamo definire questo periodo un’accelerazione/esplicitazione di processi in atto da tempo. Pigliamo il povero Debord quando diceva che nel Mercato (lui diceva nello Spettacolo): “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione-… lo spettacolo non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo del mondo reale”.
Non significa tracciare una continuità: l’accelerazione è stata così grande da diventare anche qualitativa, ma di mettere a questione il “torneremo come prima”. Visto che nel Mercato abbiamo constatato che la riduzione dei diritti è stata assunta senza problemi, non può essere il prolungarsi di questa condizione ad essere causa del malumore generale, o quantomeno non la sola. Può essere, invece, almeno in parte, l’aumentata consapevolezza che il prima non tornerà. In fondo il percorso gioioso che già avevamo iniziato verso lo scambio tra la nostra, ormai inutile, autonomia e il flusso fantasmatico delle merci offerte dal Mercato in mutazione non potrà, a questo punto, che consolidarsi e ripartire. La distanza tra l’innovazione del Mercato e la resistenza delle vecchie abitudini, tende, a volte e solo per un po’, a creare disagio.
Fino ad ora, quindi, abbiamo evitato di offrire anche noi una mela al bacio indiretto della Rete. Abbiamo già in altri articoli motivato perché, durante il primo lockdown, non abbiamo consigliato libri, film o fatto video ecc. D’altra parte, una nostra piccola abitudine è quella di consigliare qualche testo, generalmente d’estate (qui potete trovare quello dell’anno scorso: appunti sul linguaggio).
Tuttavia questa fase in cui tali consigli, per quanto detto, sembrano non essere bene accetti né richiesti, ci pare quella migliore per farlo, amando l’idea che siano consigli inascoltati.
La vita sessuale di Immanuel Kant di Jean Baptiste Botul
Immaginiamo che nel 1945, nel momento in cui l’Armata rossa entra a Königsberg, un manipolo di famiglie inizi un viaggio straordinario che le porta alla fondazione di Nuova Königsberg in Paraguay. Ipotizziamo, inoltre, che queste famiglie idolatrino Kant, il più famoso dei loro concittadini, e vivano come lui, vestano come lui ecc. Si pone un problema di fondo: se Kant è vissuto in castità, come fa una comunità che s’ispira a lui non estinguersi? Il testo racchiude un ciclo di conferenze, raccolte da Frédéric Pagès, tenute dal filosofo Jean Baptiste Botul all’attenta comunità di kantiani.
Botul si pone una serie di domande sul contrasto tra filosofia e matrimonio e più in generale tra filosofia e vita. Per rispondervi rilegge le categorie Kantiane in quest’ottica. La cosa in sé non può che essere il sesso (e difatti Kant ne sviluppa un feticismo), la metafisica il desiderio di guardare sotto le gonne della realtà e la critica, di conseguenza, il tentativo di imbrigliarla. Anche la lettura ragionata delle lettere è interessante. La cara Marie Charlotte Jacobi invita il grande pensatore a trovarla e tra l’altro scrive : vi aspetterò dunque e il mio orologio verrà ricaricato”. Frase quanto mai oscura, ma non per Botul che ci collega le calze di Kant. Essendo un famoso ipocondriaco il filosofo rifiutava l’uso delle giarrettiere temendo la loro pressione sulle arterie. Per tenere su le calze utilizzò la cassa di un orologio con la rispettiva molla, attraverso la quale regolava la pressione del filo. In quest’ottica evidentemente Maria Charlotte stava facendo un chiaro invito sessuale.
Questo libro ci è particolarmente caro perché rese ridicolo l’odioso Bernard-Henri Lévy, che non si accorse, nonostante le esilaranti conclusioni delle lezioni, che il filosofo Botul altri non era che un’invenzione di Frédéric Pagès e lo citò in un suo saggio.
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L’ambizione di Vermeer di Daniel Arasse
Perché occuparci di Vermeer, visto che ci definiamo collettivo di ricerca del contemporaneo? In realtà è per evidenziare come in questo testo di Daniel Arasse si evitano alcuni luoghi comuni che ormai caratterizzano le letture della sfinge di Deft (compreso questo nomignolo affibbiato al povero Vermeer). In fondo, rispetto ai pur grandi suoi contemporanei (recentemente abbiamo citato Metzu), dalla prima grande mostra moderna dedicata alla pittura olandese ad oggi, il nostro ha sempre attirato l’attenzione per una sua specificità, spesso attribuita ad una sorta di aura enigmatica.
Arasse analizzando la vita, sfatando il mito del suo essere misconosciuto, e soprattutto nel dettaglio le opere testimonia come, invece, l’effetto dei suoi quadri sia una deliberata scelta artistica di Vermeer. La fama del pittore è quella di “pittore fine” che si può tradurre in minuzioso e meticoloso. E’ un’evidente contraddizione con il fatto che Vermeer dipinge sfumato, persino nella più piccola delle tele (La merlettaia, 24*21 cm).
D’altra parte, il fatto che il “realismo” dei quadri di Vermeer sia in realtà più una ricerca della coerenza ed equilibrio, o disequilibrio, all’interno della tela stessa può avere molti esempi: dalla mano a bulbo semifinita dell’Arte delle Pittura (1665-1666) al quadro nel quadro della Donna con Bilancia, che scende più in basso a destra della figura femminile che a sinistra (non per certo per errore).
Potremmo fare vari esempi, come l’uso della prospettiva dal basso, ma, a dimostrare la sua cosciente ricerca poetica, ci sembra utile l’uso della luce, che spesso viene citata come caratteristica riprova della finezza del pittore. Nell’Allegoria della fede cattolica la finestra, che illumina la scena, è socchiusa. Questo, oltre a essere un indicatore della fede cattolica dell’autore per cui la fede (luce) va trovata attraversando il buio, serve nella rappresentazione a: indicare che per quanto riguarda il quadro la luce l’ha disposta l’autore, impedire che le finestre a crociera possano riflettersi nella sfera di vetro appesa al di sopra della testa della protagonista. La sfera è un elemento ricorrente in molte tele dell’epoca, ma normalmente ha funzione appunto di specchio sia per cose (in questo caso poteva facilmente riflettere una croce) che per le persone, spesso un autoritratto. Vermeer invece le fa rappresentare solo la luce ed il colore, rappresentati da macchie colorate.
Che poi, più degli altri pittori del suo tempo, Vermeer potesse prendersi il lusso di creare una propria poetica e di uscire a volte dai cliché delle rappresentazioni coeve (ad esempio non eseguendo ritratti) lo si deve al fatto che, avendo altri proventi, la pittura non era per lui una fonte di reddito. Tanto da poter dipingere 2, 3 quadri all’anno e poter tenere dei quadri (anche impegnativi come l’Arte delle pittura) per sé.
Estetica del Vuoto – arte e meditazione nelle culture d’oriente
di Giangiorgio Pasqualotto
Quale oriente e quali culture? E’ una domanda necessaria per non cadere in false generalizzazioni. Ebbene qui si parla del Giappone e della Cina e più specificamente del taoismo classico e nel buddismo, come poi del buddismo chan e zen.
In sostanza si sostiene, e certo non è una novità visto che il testo si inserisce in un percorso di studi secolare, che a differenza dell’Occidente, che teme il vuoto, in queste culture esso è il nucleo centrale da cui si indirizzano le energie e le disposizioni estetiche. A patto d’intenderci: il vuoto non s’interpreta come il niente, come il non essere, come il concetto di vuoto ma come l’esperienza del vuoto, il non esserci, come si può ottenere con specifiche forme di meditazione.
Meditazione che non è preghiera, non si invoca nessuno, ma è attenzione concentrata a ciò che accade nelle teste, nel corpo, nel mondo. Tale pratica è necessaria per produrre o fruire tale esperienza estetica, essendo quest’ultima essa stessa una forma di esercizio meditativo.
Da qui l’autore analizza varie forme di arte cinese e giapponese, dandone un’interpretazione proprio partendo da un’approfondita analisi del vuoto (e del suo contrario dialettico il pieno) in queste culture, e questo è il carattere secondo noi originale del libro. Capiremo quindi perché nella cerimonia del tè il viottolo che attraversa il giardino che porta al sukiya (stanza del tè) dev’essere fatto di pietre a distanza variabile l’una dall’altra, perché negli haiku non può esserci un soggetto o che nell’ikebana simbolicamente il ramo verticale sta per il cielo, quello mediano per l’uomo e l’orizzontale per la terra. A noi è interessato particolarmente il discorso sul teatro no, se non altro perché da poveri occidentali odianti il vuoto, è quello che abbiamo finora compreso di meno.
* le foto sono riprese alla stessa ora nello stesso luogo i giorni prima dei lockdown