un pò di testi:
Agamben – Il Linguaggio e la morte
Gilles Deleuze, Giorgio Agamben Bartleby, la Formula della creazione
Derrida – L’animale che dunque sono
Mario Costa – Ontologia dei media
Premessa
Abbiamo tentato di spiegare/spiegarci il Mercato come dato caratterizzante, univoco, del tempo che viviamo, di come ci permea nel suo monologo, del piacere di surfare sul suo flusso ininterrotto.
Poi abbiamo cercato di leggere le modifiche del nostro corpo, in festoso mutarsi grazie alle sue repentine e frequentissime domande. Però manca ancora, secondo noi, qualche riga su ciò che deriva dal primo e avvolge il secondo, prima ancora della sua nascita: il linguaggio.
Saltiamo, per così dire, il livello base . Non ci mettiamo a descrivere come si riduce il numero di parole utilizzate mediamente a causa dei messaggi e di Twitter, ci ritraiamo con sospetto dalle teorie mistiche sull’io multiplo e la Grande Madre Rete che si basano sui giochi di ruolo. Anche perché un po’ ci puzzano di nostalgico, mentre noi stiamo nel Mercato senza lamentazioni.
Di seguito solo alcuni appunti, che poi approfondiremo o alleggeriremo.
Sono frammenti, quindi si possono leggere in maniera non consequenziale, così abbracciando già dal testo il gradevole diktat del Mercato.
Primo giorno
Dasein, la bella parola chiave di Heidegger. Tutti noi potremmo trovarla sparsa ovunque e tradotta con Esserci, Essere nel mondo. Ma ecco che appare Agamben e ci spiega che possiamo pure dargli una lettura diversa : Dasein = Essere-il-Da, Essere-il-Ci, che non è mica banale perché qua si discute di Linguaggio e Morte e inserito nel testo riporta al soggetto una negatività sua propria che altrimenti non sarebbe stata compresa. Se poi non si accetta questa formulazione allora si può cambiare paradigma e restare sugli altri testi. Agamben non ci dorme la notte e ne scrive prima del secondo giorno del suo seminario. (Agamben, Il Linguaggio e la Morte, Einaudi)
I would prefer not to, dice più volte Bartleby, lo scrivano di Melville, che, nella nostra traduzione è, come in quasi tutte per altro, un educato “Preferirei di no”. E dunque stavamo pacificati fino a che Deleuze si chiese come mai la formula utilizzata in inglese era così manierista, cosa voleva dir questa solennità usata tutto sommato da un copista in uno studio d’avvocato. Perché non usare “I had rather not” che è il più comune? E l’uso della formula arcaica, addirittura agrammaticale, ha un ruolo nel folle reagire dell’avvocato a cui sono rifiutati dei servizi ulteriori oltre a quelli da copista? (Deleuze, Agamben : Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet). Effettivamente questo not to lascia sospeso anche linguisticamente il non dire né no né si, che non è però sospensione senza conseguenze. Come dice Deleuze, Melville così scava nella lingua una sorta di lingua straniera e costringe il linguaggio a fare i conti col silenzio.
Sia il Dasein che il I Would prefer not to trovano anche altre ulteriori interpretazioni, di cui magari diremo, ma per arrivare ad ognuna di esse bisogna riconoscere che Esserci e Preferisco di no sono pur sempre, corrette quanto vogliamo, povere traduzioni che per creare una piccola tensione devono essere prese in origine.
Notturno
Nel 2006 viene pubblicato “L’animale che dunque sono” di Derrida (Jaca Book). Non occorre entrare troppo nel merito, anche se certo ne consigliamo la lettura. Ciò che ci interesa qua è che a un certo punto il suo ragionare si ferma e riparte da una poesia di Paul Valery “Abbozzo di serpente”. Ne cita parti e ci scrive su. Cosa gli interessa? Che il serpente si dà un nome, si auronomina, all’inizio pronuncia un Io che poi rimarrà in maiuscolo fino alla fine. Poi il travestimento di quest’essere complesso, mentitore, che si copre della pelle del serpente per rendersi semplice. Infine l’abisso animale “la vertigine della bestia che dice io sono bestia”. Abisso che, pur facendo riferimento a una mancanza, non è di per sé un vuoto, ma un eccesso di essere. Sarà tutto più chiaro col testo davanti.
Perché interessa a noi? Perché non c’è una traduzione in italiano del testo completo online. Se uno incuriosito dalle riflessioni di Derrida volesse leggersi la poesia dovrebbe cadere nella antica scrittura su carta.
E allora ecco di seguito l’originale ed alcune traduzioni dei frammenti incriminati:
Ébauche d’un serpentBête je suis, mais bête aiguë, … La splendeur de l’azur aiguise … Cieux, son erreur ! Temps, sa ruine ! … Et de mes pièges le plus haut, |
Paul Valery: Poesie – Feltrinelli 1968 Disegno di un serpente Bestia io sono, ma bestia acuta il cui veleno quantunque vile, lascia lungi la saggia cicuta … Lo splendore celeste acumina la biscia che di quest’animale di semplicità mi veste … Cieli il suo sbaglio, Tempo la sua rovina. E aperto, il baratro animale… che caduto scintilla nell’origine, dove era il nulla! … Suprema insidia, i cuori preservi nel conoscere l’Universo come un difetto in seno alla purezza del non essere! |
L’animale che dunque sono – Derrida 2006 Jaca Book Abbozzo di serpente Bestia io sono, ma bestia acuta, dal veleno sia pur vile, che lascia lontana l’antica cicuta! … Aguzza l’azzurro splendore questa biscia che mi traveste d’animale semplicità … Cieli, il suo errore! Tempo, la sua rovina! E l’abisso animale, spalancato! Quale caduta nell’origine scintilla in luogo di nulla … E’ il più alto dei tranelli, tu guarda i cuori dal conoscere che l’Universo non è un difetto nella purezza del non essere! |
Paul Valery – Opere poetiche Guanda 2012 Abbozzo di serpente Bestia sono, ma bestia acuta, di cui benché vile il veleno lascia via la saggia cicuta! … Il fulgore dell’azzurro acumina il basilisco che mi maschera di animale semplicità! … Cieli, il suo errore! Tempo, la sua rovina! E il baratro animale, aperto!… che caduta nell’origine s’infiamma in luogo del deserto!… … E delle mie trappole la più alta, salvi i cuori dal sapere che l’universo non è che un neo nella purezza del non essere! |
Google translate – 2018
Si tratta di un serpente Bestia che sono, ma stupida, … Lo splendore dell’azzurro azzurro … Paradiso, il suo errore! Il tempo, la sua rovina! … E dalle mie trappole il più alto, |
E’ evidente che Derrida legge la poesia in francese, e che anche ognuno di noi, per diletto, leggendo le varie versioni, potrebbe accontentarsi. Non certo però se intendessimo scrivere un testo complesso come L’animaale che dunque sono. Si vede bene che i punti d’interesse cambiano anche di molto. Nella versione 2012 scompare pure l’Io che tanto affascina Derrida, così come cambia di molto la questione dell’essere e della purezza del non essere. Si legga il testo di Derrida per capire l’importanza della cosa.
Questo potrebbe ridursi però a uno dei mille e mille testi sui problemi della traduzione, che dalla Bibbia in poi di certo pesano sul pensiero umano, non fosse che c’è anche l’ottima traduzione di Google. Ed in effetti la questione nuova che si pone è che rispetto alla discussione classica sulla traduzione, ora entra in gioco la rete, dove ognuno, magari malamente, può fare il traduttore. In un settore, diversamente dalle materie scientifiche, mai messo troppo in discussione. Per cui nulla osta che il collettivo Veditu piazzi la prima traduzione della poesia su Wikipedia ed esso diventi, per questo, super autorevole, poiché crediamo che chiunque, in prima istanza, cercherà in rete il testo. Potremmo prendere uno qualunque dei testi qua sopra, cosicché magari un lettore di Derrida, incuriosito, potrebbe trovarsi a mettere in discussione il suo stesso testo. In fondo la nostra traduzione sarebbe garantita dall’ autorevolezza di google e certo più recente.
Ma se volessimo farla sporca e mettessimo la meravigliosa traduzione di google, qualcuno alla fine la metterebbe seriamene in discussione? Alla fine il suo “mantieni il cuore per sapere…” non ha da invidiare agli altri.
Secondo giorno
Franco Fortini è stato un importante intellettuale italiano del 900. Ad un certo punto, sperando di mantenere se stesso e la sua famiglia, rassicurato dall’autorevolezza della casa editrice, accetta di scrivere 35 voci per un dizionario di lettere. Si ferma effettivamente a 24 perché qualcun altro lo paga di più. A un certo punto le pubblicano (F. Fortini, ventiquattro voci per un dizionario di lettere – Il Saggiatore 1968) e lui sente la necessità di giustificarsi. Essendo carico dell’ideologia per cui il lavoro intellettuale deve essere una missione, quindi non pagato, si sente in colpa per aver ceduto ad un’opera divulgativa.
Quello che ci interessa è una sua esperienza. Negli anni 40 si illuse di poter mettere assieme le reciproche conoscenze con altri intellettuali di varie discipline, per elaborare una prospettiva culturale comune, correggere reciprocamente gli errori, confrontarsi tra vari saperi. Tentativo fallito per l’allora diffidenza dei partiti, per lo sfavorevole atteggiamento del Mercato. Ma soprattutto perché generava, magari involontariamente, una separatezza tra gli intellettuali e la gran parte della popolazione. Tale separatezza aveva l’effetto, per dirla con Fortini, di rendere questi gruppi di intellettuali, immediatamente settari. Proprio questo parlarsi tra pochi elevati rendeva l’operazione inaccessibile al Mercato.
Perché invece la divulgazione, compreso il suo stesso testo, risulta spesso fatta di un linguaggio “convenzionale e falsetto”? Perchè si pone dei destinatari invisibili, non ha un’idea di pubblico. Cerca di avere una visione liberale verso tutte le posizioni, di riempire di attenuanti ogni dichiarazione azzardata. Tanto è forte questa impostazione che non fa alcuna differenza la posizione ideologica di partenza dell’autore.
Saltiamo 50 anni ed arriviamo ad oggi. Disperdiamo il bagaglio ideologico che abbiamo fin’ora apparecchiato. Però è ben vero che Mercato ed Internet, oscillano in moto perenne tra queste alternative. In fondo gli algoritmi che ci regolano ci portano a frequentare, specie sui Social, persone o non persone simili a noi, con le nostre idee o i nostri interessi. Cioè gruppi, più o meno ristretti, più o meno scelti, spesso assegnati in cui riconosciamo un gergo, le nostre “ideologie”, in cui possiamo trovare consenso senza preoccuparci degli altri, miliardi. Anche non volendo, così si diventa un po’ “settari” e l’abbiamo visto in mille occasioni.
D’altra parte , invece, esiste una corona di siti che tendono a darsi un linguaggio più liberale, per intercettare tutti, su FB più le pagine che i profili, in rete , ad esempio, siti di eventi o di viaggi. La grafica stessa cerca d’essere generalista come la Tv anni 80. Ci possono essere macrogruppi. Es. giovani, amanti della musica, dei viaggi ecc, ma sono sempre comunità larghe, spesso comunque indefinite o che evitano il più possibile ostacoli alla lettura da parte di chiunque. Hanno in sé una natura commerciale, poiché più che il tema di cui si occupano, sono interessati a porsi come interlocutori di quelli che in rete cercano informazioni su quel tema. E’ meglio essere accattivanti che approfonditi, liberali sulle informazioni.
Notturno
Detto fra noi, ma vale la pena porsi tutti questi problemi? In fondo in questo universo fluente, in cui ci sembra d’essere coccolati da fenomeni galleggianti sul nulla e privi di ogni consistenza (non è male che anche noi ogni tanto si galleggi nel nulla sotto un ombrellone) ha senso porsi domande sulla lingua, sul corpo, sul soggetto? (Mario Costa – Ontologia dei media, Postmedia books)
Potremmo trovare, stanotte, pure una scusa plausibile.
Buttiamola su Lacan e sul suo soggetto come puro vuoto, che si muove nell’immersione dei significanti, spinto da uno all’altro attraverso identificazioni simboliche.
Pensiamo all’eccesso di accumulazione simbolica oggi presente in Rete, dove tutto il simbolico umano trova spazio. Produrrà, quest’eccesso, un allontanamento dal simbolico del soggetto? Compreso quello proprio del soggetto stesso?
Dunque sarà frammentario il soggetto che non può più balzare liberamente , non può più stare nell’equilibrio, forse mai raggiunto, tra i significanti e il simbolico? Ed è di certo una condizione della felicità nel Mercato, che non richiede anzi respinge l’idea di stabilità, perché la flessibilità/precarietà è attualmentea normale sia la nostra cifra esistenziale.
Se fosse così allora potremmo ordinare un mojito immaginando che tra il drink, la sua immagine sul menù, l’immagine che ne faccio dal cellulare per metterla su Instagram non ci sia nessuna differenza ontologica. Cioè se la condizione del soggetto è quella detta, allora tanto vale annegare nel flusso del Mercato, in cui non c’è differenza tra una cosa e la sua immagine: entrambi sono fenomeni che in qualche modo strano percepiremo.
Solo ci rimane un dubbio, perché il mojito a un certo punto finisce mentre la sua immagine in rete no. Un umano fotografato può avere la stessa natura di una sua foto, ma quando muore ancora non siamo convinti sia solo un’insieme di informazioni che scompaiono, nel mare di quelle equivalenti che lo rappresentano.