Venice international performance art week
Se parliamo di contemporaneo non possiamo evitare di parlare di performance. Non vogliamo farne qua una storia, anche se ci piacerebbe, quanto iniziare a raccogliere degli spunti che abbiamo sparso qui e là negli articoli di questo sito e dandoci una data e un luogo in cui tutto ha avuto, per noi, inizio: 2009, Moma, 100 Years: A History of Performance Art.
Un’enorme mostra che ha permesso di vedere tutta l’evoluzione di questo tipo d’arte, dal ‘900 fino all’oggi, epoca in cui le performance sembrano trionfare: alla Biennale di Venezia il Leone d’oro lo vince Anne Imhof, Tino Seghal furoreggia e la Abramovic vende ormai i biscotti al suo stesso sapore.
Dagli anni 50 e 60, dagli inizi dello sconfinamento dall’opera all’evento, la cui esperienza è riferibile a comportamenti e processi, fino ad arrivare a una tale moltiplicazione e differenziazione che, come illustra bene un video della Tate (tate performance’s story), per quanto uno/a possa girare, quasi ovunque troverà una performance. Dunque performance come comportamento, sperimentazione, politica, rituale (Sonia D’altro, Art tribune).
Ed il corpo, i corpi considerando anche quelli degli spettatori, in mezzo al tutto.
Nelle modifiche che viviamo essendo immersi nel Mercato, in ciò che dovrebbe distinguere il contemporaneo immediato sensibile, proprio questi sono i temi da indagare. Nonostante tutte queste premesse, tutt’ora abbiamo il dubbio se sia questa la forma d’arte più adatta a raccontarli.
Dal 7 al 16 dicembre si è tenuto a Venezia il Venice Internatonal Performance Art Week, un’esperienza nata nel 2012 su iniziativa di VestAndPage. Nelle prime 3 edizioni è stato messo a tema il corpo: poetico, politico e materiale. Quest’anno la formula del progetto è cambiata. Dal susseguirsi di performance degli anni precedenti a un incontro di artisti, divisi in tre gruppi condotti dagli stessi VestAndPage, da Andrigo e Aliprandi e da Marylin Arsem. Alla fine era prevista un restituzione del lavoro fatto a palazzo Mora.
Ci siamo chiesti se le performance stiano cambiando al modificarsi del corpo stesso, nel momento in cui la tecnologia è vissuta ormai come una sorta di “capacità naturale” e il confine tra l’organico e l’inorganico si riduce. La stessa ritualità, che è stata sia indagata come tentativo di connettere pratiche ancestrali, religiose o meno, con la vita moderna, che è stata ricreata, messa in atto, fondata e restituita forse non ha ancora senso nel momento della deterritorializzazione delle membra, della relazione istantanea tra persone, pratiche e saperi. Lo stesso può valere per la politica, ormai esterna ai canoni novecenteschi e fuori dalla percezione dei/delle ragazzi/e o per le altre relazioni, allo stesso modo spesso ignorate o condannate.
E lì, a Venezia, magari non saranno d’accordo con noi, ma almeno si sono interrogati su questi temi. Si usano le pareti come “palcoscenico”, si mescola la musica sperimentale alla danza, ci s’ingabbia e ci si libera, s’usa la tecnologia.
Non crediamo che ci sia ancora un risposta alla capacità di trasformarsi della performance in conseguenza della trasformazione del suo medium (corpo ecc.), ci sono dei tentativi e una ricerca. Qui più che altrove restano all’orizzonte due grandi questioni. In primo luogo il distaccarsi progressivo dell’individualità intesa in senso moderno (un’artista difficilmente ha un ego piccolo) dalle forme sempre più comunitarie della nascita di senso, della conservazione delle memorie, delle relazioni contemporanee. La qual cosa, se non superata, può cadere in una sorta di periferica resistenza creativa o in un rifiuto della realtà reazionario.
Il secondo problema è la possibilità, nel mercato, d’esistenza di un atto che di per sé crei una reazione ricercata, non casuale o autoreferenziale, nello spettatore. Che generi uno scambio, o volutamente non lo generi, identificabile almeno approssimativamente come gesto artistico. Anche qui, altrimenti, s’oscilla tra l’insignificanza (che pure potrebbe essere ricercata) e una sorta di spiritualismo fai da te.
Per evitare d’essere ricacciati nel teatro o nelle discoteche, rinunciando alle differenze, come diceva Carmelo Bene, per non rivolgerci al passato, bisognerebbe “uscir di pagina, uscir di sé, uscir di senno”.
If we talk about contemporary we can not avoid talking about performance. We do not want to make here a story, even if we would like, how much to start to gather some ideas that we have scattered here and there in the articles of this site and giving us a date and a place where everything has had, for us, beginning: 2009, Moma , 100 Years: A History of Performance Art.
A huge exhibition that allowed us to see all the evolution of this type of art, from the 20th century until today, when performances seem to triumph: at the Venice Biennale Anne Imhof win the Golden Lion, Tino Seghal has a very success and Abramovic now sells biscuits that have her own’s taste.
From the 50s and 60s, from the beginnings of the transition from the opera to the event, whose experience is referable to behaviors and processes, up to such multiplication and differentiation that, as a video of the Tate (Tate performance story) shows that as for one can turn almost anywhere and find a performance. So performance as behavior, experimentation, politics, ritual (Sonia D’altro, Art tribune).
And the body, the bodies also considering’s those of the spectators, in the middle of everything.
In the changes we live by being immersed in the Market, in what should immediately distinguish immediate sensitive, the body, rituality, time and relationships (politics and behavior) are for us, the territories to be investigated. Despite all these premises, we still doubt whether this is the most suitable form of art to tell them.
From 7 to 16 December Venice Internatonal Performing Art Week was held in Venice, an experience born in 2012 on the initiative of VestAndPage. In the first 3 editions the body was put on theme: poetic, political and material. This year the formula of the Festival has changed. From the succession of performances on the theme of the years to a meeting of artists, divided into three groups led by the same VestandPage, by Andrigo and Aliprandi and Marylin Arsem. In the end there was a restitution of the work done at Palazzo Mora.
We wondered if the performances are changing when the body itself changes, when the technology is now experienced as a sort of “natural capacity” and the boundary between the organic and the inorganic is reduced. The same ritual that has been both investigated as an attempt to connect ancestral practices, religious or not, with modern life, which is recreated, put into action, founded and returned still makes sense in the moment of the deterritorialization of the limbs, of the instantaneous relationship between people , practices and knowledges. The same can apply to politics, now outside the canons of the twentieth century and out of the perception of boys / girls or other relationships, in the same way often ignored or condemned.
And there, in Venice, maybe they will not agree with us, but at least they questioned themselves
We do not believe that there is still an answer to the performance’s ability to transform at the same time of the transformation of its medium (body, etc.). There are attempts and research. Here more than elsewhere, two large issues remain on the horizon. In the first place the progressive separation of individuality understood in a modern sense (an artist hardly has a small ego) from forms increasingly linked to a coomunity way to birth of sense , to the conservation of memories, to contemporary relationships. Which, if not overcome, can fall into a sort of a creative resistance or a reacttionary rejection of reality.
The second problem is the possibility, in the Market, to the existence of an act that in itself be a researched reaction, not casual or self-referential, in the viewer. That generates an exchange, or deliberately does not generate it, identifiable at least approximately as an artistic gesture. Here, too, otherwise, it oscillates between insignificance (which could also be sought) and a kind of do-it-yourself spiritualism.
To avoid being pushed back into the theater or discotheques, renouncing the differences, as Carmelo Bene said, in order not to turn to the past, we would have to “get out of the page, get out of ourselves, go out of our mind”.
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